Basta borchie. Basta cerchi colorati sui vestiti. O finti rimandi agli  anni ’70 (che poi dietro c’era un pensiero, una filosofia, una rivoluzione. Mica un cappello a tese larghe e un paio di zeppe, tanto per far slanciate). Qualcosa ho visto che mi è parso intelligente. Un po’ di storia ha fatto anche capolino fra sete luccicanti e marchi da paura. E ci ritorneremo. Ma ora esplicito, a gran voce,  il mio bisogno di surreale.  Voglio uno stilista che  affronti  la donna vera, quella contemporanea. La più difficile. Che non ricorra agli anni passati, quella figura non c’è più e qualcuno dovrà pur dirglielo. Voglio una maison che investa  in emozioni. Che abbia il compito di lanciarmi in mille voli, di camuffarmi in cento specchi e di farmi piacere in tutti quanti. Ho voglia di moda che faccia dimensione. Vorrei poter assistere a una sfilata d’anime, con abiti a pensiero che avvolgono i corpi come storia. Vorrei rimandi  all’incoscenza, al gioco che si fa serio.  Perché serio è saper giocare a vivere. E invece vedo di fronte a me una valigia di ricordi, con foto sbiadite unicamente grazie ad istagram. 
Mi rifugio perciò nel taglio surreale del talentuoso Erkan Coruh, nella foto con me e Sabina Negri, il cui immaginario mi spedisce dritto dritto nella contemporaneità. Con la provocazione contro i regimi integralisti per esempio, che vogliono la donna coperta con il velo, a cui risponde con il viso celato e le trasparanze altrove. In un gioco da visionario, con il nome “Norms”, dove si esprime alla perfezione il concetto di corpo e di identità. Con i tocchi minimali di un Oriente che cambia aspetto e che lavora sui concetti e sullo spazio.  Con i rimandi all’impossibile,  felicemente ispirati a “Picnic at Hanging Rock” del grande Peter Weir. Di questo abito, prossimamente, mi vorrei vestire.