Il viaggio vero e quello immaginario. Per due giorni li abbiamo fatti entrambi, io e il mio gruppo di aspiranti scrittori. Il livello era molto alto e scegliere il vincitore del primo premio, offerto da MareTermaleBolognese, non è stato facile. Enfin ho battezzato il testo di Roberto Breschi, per la storia e la dolcezza di un viaggio “salgariano”. 
Voi sapete che Emilio Salgari non si è mai mosso dalla biblioteca pubblica e che il suo Sandokan è nato proprio in quelle stanze piene di libri da consultare?  Altro che foreste, altro che Malesia. L’unico viaggio che poteva permettersi era dalla biblioteca a casa sua e viceversa. Però che storie e che mondi meravigliosi ci ha saputo raccontare. 
Ecco la storia di Roberto e dei suoi protagonisti è un po’ così. 


Gli altri racconti sono altrettanto belli, sono storie di tutti i giorni. Sogni che prendono forma o cambiamenti da mettere in atto. Ve li lascio qui, perché so che tanti di voi si riconosceranno in qualche tratto di storia vissuta.



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Ogni giorno un viaggio
di Roberto Breschi

“Siamo a Firenze, puntuali!” “E ora, dove mi porti?” “Subito piazza del duomo, poi il centro e gli Uffizi: Botticelli e Leonardo fino alla chiusura!” “Sulla mappa sono vicini, possiamo girarcela tutta a piedi” “Il modo migliore, sempre”. I loro occhi erano allacciati, la destra di lui teneva la sinistra di lei in una presa dolce. “E per cena un posticino, sentirai che ribollita! Poi hotel in centro: 5 stelle! E, in fresco, champagne!” ”Ma costerà una fortuna” disse lei, abbassando gli occhi, “e poi… la ribollita col cavolo nero toscano so farla anch’io, magari a casa mia”. Un lampo deciso saettò negli occhi di lui “No, oggi ti voglio trattare come una regina!”.
“Ragazzi, vi riportiamo dentro” Gli infermieri avviarono le due sedie a rotelle, ma loro sembravano non accorgersene, niente nella stretta delle mani e degli occhi era cambiato. Arrivati alle stanze, solo un bisbiglio “Bella Firenze, vero?” “Stupenda” “ E domani Venezia, lo sai: ogni giorno un viaggio!”.
Al ritorno un infermiere sbottò, allargando le braccia: “Lui è alla frutta e soffre da matti, fossi io al suo posto, ti chiederei un ultimo favore…”. L’altro infermiere si fermò, come per soppesare bene le parole “E lei… piena di metastasi… eppure” e qui la sua voce ebbe come uno scatto “ritagliando gli occhi, quelli soli a entrambi, diresti che sono il ritratto della felicità. Chi ci crederebbe?” “Ah! Nessuno, di certo nessuno”.


Il viaggio dell’elefante Akim
di Simona Pasini

L’unico modo per sopravvivere è continuare a camminare.

Sono partito dalla tranquilla foresta di Luwawa, questa mattina presto con il mio branco, ho attraversato la calda steppa a est di Salima e solo ora, sotto questo cielo stellato, sono arrivato qui, a nord di Malawi. Ho incontrato qualche leone solitario, una mandria di antilopi e piccoli gruppi di licaoni affamati, ma sono passato oltre, senza fermarmi. I cormorani e gli avvoltoi ci seguivano da lontano, speravano di vederci crollare.
Vivere è un mestiere difficile, per questo non dimentico nulla. So dove devo andare, so cosa troverò e quale sarà la strada del ritorno: così, ancorato ai ricordi, posso evitare di perdermi, così posso affrontare il futuro.
Ne ho viste di cose in queste terre selvagge e anche se travolgo tutto con il mio passaggio, qualcuno dopo di me, troverà ancora qualche radice da dissotterare o qualche zolla da calpestare.
Il caldo di questi giorni ci affatica, ma io e i miei compagni sappiamo che fermarsi significa perdersi, per questo non ci scoraggiamo e insieme, uniti, procediamo.
Questa libertà che ci resta ci rende fieri, felici; l’inverno è lontano e dobbiamo stare sempre vicini all’acqua per non farci cogliere alla sprovvista dall’estate ogni giorno più arida e secca.
Domani all’alba decidiamo il sentiero. Ci spostiamo verso sud?
California
di Stefania Guglielmi
Il deserto della California non è quello che la gente immagina pensando al deserto. Non c’è sabbia, non ci sono cactus, solo una distesa infinita di terra brulla tagliata da una strada diritta e senza fine.
Giorgia veniva da molto lontano, attirata dalle voci, i colori e i rumori della città di quei fantomatici angeli, che chissà poi chi se n’era uscito con questo nome. Giorgia di giorno dormiva e la notte ballava. Come se non ci fosse un domani. Ballava ad occhi chiusi inebriata dalla vodka, liscia con ghiaccio per favore, e da sporadici incontri scontri con qualche corpo senza volto. Lì di amore non c’era nulla, non che Giorgia lo andasse cercando. Solo pelle e sudore di qualche anima passata per caso per la sua via, che inconsapevole si ritrovava a colmare un vuoto, almeno per un po’.
Giorgia giocava a fare la femmina, tanto nessuno sapeva chi fosse quella ragazza venuta da chissà dove, e tutti erano fin troppo presi da se stessi, o dalle montagne di coca che lì giravano senza che nessuno se ne scandalizzasse, per fregarsene delle inquietudini interiori di una sconosciuta. Non era poi strano incontrare un’anima sperduta in mezzo a tutto quel finto glamour; sembrava che la città le attirasse a sé e poi le rapisse.
Oggi era una giornata diversa dalle altre. Lasciatasi l’infernale traffico alle spalle, Giorgia guidava in mezzo al nulla tenuta sveglia solo da un litro di redbull e la tanto odiata musica country che passava la radio.
Ma fu lì, in quella landa desolata e dimenticata da Dio, che successe. A un tratto Giorgia si sentì viva, il sangue scorrere nelle vene. Basta con i giorni spenti di grigio e depressione. Era ora di rigirare le carte. Giorgia buttò la testa all’indietro e cominciò a ridere, e ridere e ridere, fragorosamente, sentendosi un po’ schizofrenica.
Una risata liberatoria, dal sapore dolceamaro.
-Tracy, sai cosa?- disse girandosi e accorgendosi che l’amica dormiva. – Sono libera, finalmente- sussurrò e spinse con fermezza sull’acceleratore. Non poteva permettersi di sprecare neanche un secondo. Non vedeva la fine dell’orizzonte e andava tutto bene. E lei stava bene.
 L’ala spezzata
                                                di Sabrina Boninsegna
“Prendi i comandi e decolla, ti ho insegnato tutto quello che so” esorta Enrico con voce calma e decisa. A cinquant’anni Folco ha deciso di osare. Ha scoperto una passione che l’ha scosso dal torpore nel quale viveva. Emozionato, timoroso, guarda il cielo e si agita osservando il velivolo “C’è troppo vento” bisbiglia. Una calda brezza estiva curva i rami dei tigli all’ingresso dell’aeroporto. Enrico posa con fermezza la sua mano sinistra sulla spalla dell’amico “Ho il doppio comando, ti fidi di me?” In un lampo il piccolo aereo è acceso, percorre velocemente la pista e, come sollevato da un’onda invisibile, si alza. Le ali si librano lievi, una leggera correzione e la rotta è perfetta. La fusoliera scarlatta quasi scompare all’orizzonte. Un boato fa levare in volo i merli che spigolano tra i campi di grano. L’aereo non si scorge più. I resti fumanti cadono in un’aia. Il primo ad accorrere è un contadino, spettatore involontario di questa tragedia non del tutto inattesa. L’aveva vista la manica a vento, gonfia, protesa lontano dal palo. Scorge un’ala spezzata, grida. “Ci scusi” borbotta Folco, lo sguardo vacuo. “Costruiremo un nuovo aeromodello” dice Enrico mentre fruga tra l’erba alta in cerca di qualche pezzo da recuperare.
  
46 Secondi
di Federico Evangelisti
Marco si fermò all’ennesimo semaforo rosso con un braccio che penzolava esanime fuori dal finestrino e gocce di sudore che staccandosi dalle ascelle gli bagnavano i fianchi. L’aria bollente di Luglio spostava lo smog da una carreggiata all’altra. Passava lo sguardo da un auto all’altra quando la vide: era in piedi alla fermata del bus, davanti ad un muro di graffiti sovrapposti. I lunghi capelli ricci, dorati come il grano, le dondolavano sulle spalle nude e abbronzate. Il fisico esile ed elegante era stretto in un vestito color anguria.
L’aria che fino a poco prima era sporca e pesante divenne per lui, solo per lui, il respiro caldo di un dio buono. Ora sentiva l’odore del pane appena sfornato dall’altra parte della strada, vedeva i vestiti dalle tinte allegre della gente che camminava. Poteva addirittura sentire cinguettare un uccellino, fra i rami degli alberi dell’aiuola spartitraffico.
Tirò il freno a mano e si slacciò la cintura. Scese in mezzo alle macchine e affrettando il passo le si avvicinò tirato da un filo invisibile che lei si accorse di tenere in mano quando le fu vicino. Osservò sorridendo la sua faccia incuriosita, la bocca sottile, il naso minuto e costellato di lentiggini, gli occhi color cioccolato.
“Che colore ha per te l’amore? Che odore fa?” le chiese mentre un concerto di clacson iniziò ad accompagnarlo “E quanto ci mette a rendere migliore un uomo?”
Bologna – Baghdad andata e ritorno
di Maria Ludovica Frangipane
Mai stati a Baghdad?
In mezzo ad un traffico caotico, polveroso e caldo, le auto si affollano fin quasi a toccarsi. Si intrecciano a formare un nodo in mezzo a una T-shirt. Non si sfiorano ancora. Vanno avanti fino al limite del contatto. Si concentrano in un braccio di ferro che, inevitabilmente, porta alla paralisi.
All’improvviso, il Rais del traffico: scende da un’auto, assume il controllo, sblocca l’ingorgo con pochi gesti e con l’aiuto di un occasionale braccio destro. Il traffico si scioglie, piano, in un indietreggiare e un procedere difficoltosi.
E’ tutto così, a Baghdad. Gli ingorghi stradali come la politica. Intricata e incomprensibile all’Occidente perché viaggia sulle stesse dinamiche del traffico. Arriva il Rais, deciso e forte, ma poi lui stesso va avanti fin dove può, arrivando alla paralisi. E di nuovo…
E’ Roberto il mio viaggio a Baghdad. Racconta il traffico. Le dita delle mani si avvicinano fino a sfiorarsi, si bloccano. Poi una mano decisa batte fragorosamente sul cofano, mentre l’altra dà le indicazioni su come e dove spostarsi. Lentamente le dita si allontanano. Si sciolgono in direzioni diverse, si rilassano.
Le parole, i gesti, gli occhi che trasportano le immagini delineano la strada che dall’Italia porta in Iraq. Passo dopo passo o a bordo di una vettura occasionale, con un autista del posto di cui non comprendo la lingua, eccomi a Baghdad. Ora la capitale irachena perde la bidimensionalità dello schermo televisivo e la politica lascia le righe dei giornali. Sono nella terza, quarta, o qualsiasi altra dimensione consentita dal pensiero, in una realtà evocata.
Non siete mai stati a Baghdad? Nemmeno io. O forse sì.
All inclusive
di Piero Vannuccini
La pubblicità della compagnia di viaggi aveva promesso che si sarebbero occupati loro di tutto: del viaggio aereo coi documenti in ordine, della sistemazione in camere confortevoli e climatizzate, del vitto abbondante con possibilità di scelta fra menù internazionale ed etnico, delle escursioni guidate alla scoperta dei paesaggi e della cultura dell’Egitto. Nessun riferimento al fatto che, forse per colpa dell’aria condizionata, forse dei cibi locali, o di ambedue, mi sarei beccato un virus intestinale con malessere generalizzato accentuato dal fatto che, contrariamente alle mie abitudini (direi quasi regole) mi ero deciso ad intraprendere una vacanza da solo: ora nessuno che mi sostenga e mi rincuori; solo estranei, presi dall’euforia della vacanza e dalla bellezza dei luoghi, con la pelle rossa per il troppo sole, con le macchine fotografiche penzolanti dal collo o dal polso, coi vestiti vistosi acquistati nei bazar turistici, dentro a quel pullman dove, rispecchiato nel finestrino, posso intravedere il mio viso emaciato e cereo. Scendendo dal veicolo le gambe mi sorreggono a stento, l’addome è rigonfio in modo imbarazzante, e mentre pochi minuti prima ero scosso da brividi di freddo, ora sento impietosi i raggi del sole sul mio corpo malridotto. Odio le piramidi e il loro colore abbacinante, lo scalpiccìo confuso dei sandali dei turisti, la voce stentorea della guida mentre ripete in inglese e in francese cose di cui in questo momento non mi importa nulla. Il mio bagno, il mio letto, il mio cane, i miei amici, queste sono le uniche fantasie che mi danno conforto. Voglio tornare a casa, voglio pensarmi a casa.
Una gioia animale
di Patrizia Bernardi
Li aspetto da sempre, col loro vociare allegro, i giochi di spruzzi a far scintillare il mare. Ogni increspatura nell’acqua allerta i miei sensi e tuffo lo sguardo per coglierne il veloce passaggio, mentre scivolano come nastri d’argento sotto la superficie. Cerco col cuore appeso l’incontro con quegli occhi teneri, colmi di allegria e socievolezza. Ho solcato tante volte il mare per poter viaggiare con loro, anche un solo frammento di strada insieme. I delfini sono compagni deliziosi in mare, come i cani lo sono in terra. Non sanno dove stai andando e dove li porterai, ma hanno fiducia, quella che ancora tu non conosci. E si abbandonano a te, allo scambio d’amore nel gioco, alla vita, quella che ancora ti spaventa. Quante volte avrei voluto tuffarmi con loro per nuotare insieme fino alla riva, cullata dalla loro allegria, senza mai trovare il coraggio di farlo. Così quel viaggio nell’abbandono del corpo e dell’anima mi rimane ancora dentro, rinviato o cancellato non so ancora decidere, a ricordarmi che la vita ha bisogno assoluto di fiducia, spensieratezza, gioia. Dove se n’è andata la gioia che a un tratto non ho più ritrovato sul mio visetto incorniciato di riccioli biondi ? Nella foto i miei occhi sgranati e increduli fissano oltre il buio, dove una famiglia si perde e l’amore scompare dal mio piccolo orizzonte. Da quel momento li aspetto, viaggio con loro, consapevole che mi condurranno dove la gioia, da troppo tempo celata nell’ombra, indugia con la tavolozza dei colori della vita tra le mani.
Nostos il ritorno
di Simonetta Rigato
Appena si era ripresa Giovanna era salita sul primo aereo per l’Italia. Girando sei mandate di chiave nella toppa aveva intuito che lui se n’era andato: in casa c’era solo quel vuoto che sentiva nel cuore. Quella maledetta notte a Pechino era cominciata quando si era svegliata, perché sballottata contro lo sportello della sua Beijing jeep. Qualcuno, cioè Matteo, ce l’aveva caricata e la stava accompagnando a casa. Meno male perché la testa le girava e doleva tremendamente e aveva lo stomaco rovesciato mosso da continui conati. Eppure si era sempre piccata di saperlo reggere il vino. Ma quello non era vino! Era un merdoso chardonnay cinese dal nome ancor più bastardo: Dinasty. In effetti forse 32 bicchieri sarebbero stati troppi per chiunque ma si sa in Cina i brindisi nei banchetti si sprecano. E come poteva sottrarsi dal fare gli onori a Carla che ripartiva; ne indovinava il cuore gonfio. Così aveva brindato, ad ogni giro, finché era crollata. A casa Matteo le aveva chiesto incerto: “hai le lenti vero? Dai, appoggiati a me che te le tolgo”. Giovanna aveva lasciato fare, lo conosceva bene. Pur nello stordimento, le restava però l’impressione che dovesse ancora accadere altro. Infatti quel maledetto telefono ha trillato. Matteo ha alzato la cornetta biascicando un:” hallo?” aveva bevuto e molto anche lui. E’ seguito un lungo silenzio poi la voce ha replicato stizzita: “ma chi parla? Passami Giovanna!” Accidenti ecco cosa aspettava quella notte, l’appuntamento. A Matteo è uscito solo un grugnito impastato:
“ ehm..non vuol venire cioè ..non può venire. Lei chi è?” ” Il marito, dall’Italia”. Click…
  

Quel che resta del gruppo :) Ovviamente abbiamo fatto la foto quando tutti se ne erano andati!

I was wearing

Morgan dress
Nadine Platforms
Vintage bag