Secondo l’ultimo input di Miuccia Prada per essere fashion alle serate di gala occorre indossare il denim. Poco importa  se le donne strizzate in corsetti, oppure avvolte da sete preziose, ti guarderanno strano. La vera rivoluzione sta nell’essere differenti. Fino a quando il denim non varcherà definitivamente il red carpet si può giocare allo spiazzamento. 

La storia di questo tessuto è lunga e interessante. L’ha raccontata Giulia Rossi, scrittrice e giornalista autrice del libro Denim. Una storia di cotone e di arte, presentando il volume all’Hotel Ambra di Cortina.
Un excursus fra il XII secolo e i nostri tempi per capire l’evoluzione dell’unica stoffa che non è mai passata di moda inventando, o reinventando, la sua collocazione sociale. Ed ecco il jeans: un capo da lavoro ma anche un simbolo della contestazione, un fenomeno di costume che affianca la pop art ma anche un elemento di seduzione, un prodotto luxury  ma anche rimodellante e dimagrante. 

Per quanto  mi riguarda ho preso parte al dibattito raccontando come il jeans sia diventato più che un tessuto un preciso rimando sociale. In Bielorussia, per esempio, nel 2006, il colore della rivoluzione fu il blu, tanto che venne chiamata La rivoluzione dei jeans. Migliaia di giovani manifestavano in piazza contro la dittatura di Aljaksandr Lukashenko indossando pantaloni, camicie e giacchette di jeans. Quando la polizia sequestrò la bandiera dei manifestanti uno dei giovani leader vi annodò la sua camicia di jeans che sventolò come simbolo di libertà davanti a tutti. 
E lo scorso anno in Iran il nuovo codice di abbigliamento imposto dal regime ha proibito alle ragazze di indossare i jeans considerati indecenti. 
 Stesso divieto per le donne in Sudan, se ti scoprono con i jeans sono 40 frustate. 

 
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