Un’opera che «non comincia, nel senso che inizia con una domanda sospesa e un accordo da allora chiamato “di Tristano”, e non finisce, nel senso del non detto, del non spiegato»: così Juraj Valčuha, il direttore d’orchestra, tra una battuta sul sinfonismo tedesco ignoto al melodramma italiano e un aneddoto su Wagner che a Liszt scrive, proprio del “Tristan und Isolde”, «ho in mente un’opera di assoluta semplicità», figurarsi un po’. «Una messa in scena non narrativa, piuttosto con un’idea di circolarità degli accadimenti»: così Fulvio Macciardi, il sovrintendente, a ragione vantando una scenografia coerente con tale impianto, ovvero pulita e di grande effetto, a prezzo di 18 tir per portarla dal Théâtre Royal de la Monnaie di Bruxelles che l’opera ha coprodotto con il Tcbo e rappresentato nel maggio scorso. «Una musica “continua”, che ci trascina in un flusso cui difficilmente riusciamo a sfuggire, totalmente fusa con le emozioni che esprime e suscita»: così Marino Golinelli, wagneriano dichiarato e per i suoi cento anni, insieme alla moglie Paola, mecenate dell’impresa. Ovvero la messa in scena di “Tristan und Isolde” in quel Teatro Comunale di Bologna che nel 1888 per primo nel Regno la rappresentò, dopo aver introdotto Wagner in Italia, “Lohengrin” già nel 1871: tant’è che a tutt’oggi, nel foyer, si guardano in cagnesco i busti dei due grandi di Bayreuth e di Busseto.

Tristano e isotta

Il colpo d’ala di questo lavoro che inaugura la stagione del Tcbo (nonché un quinquennio wagneriano da qui al 2024 con “Lohengrin”, “Parsifal”, “L’olandese volante” e il “Tannhäuser”) sta nelle personalità del regista, Ralf Pleger, e dello scenografo, Alexander Polzin. Tedeschi entrambi, il primo, Pleger, annata 1967, formazione in Ddr e alla Statale di Milano, ha spaziato dalla radio ai documentari tv, film su Ciajkovskij e lo stesso Wagner, teatro itinerante in concert halle di mezzo mondo Cina e Russia incluse, incrociando media e generi, indifferente alle suddivisioni: perfetto per un Wagner che sognava e s’industriava alla creazione della Gesamtkunstwerk, l’opera d’arte totale. Il secondo, Polzin, sei anni più giovane, è scultore, pittore, grafico e artista visivo, anche lui bello insofferente alle partizioni delle arti, e una copiosa messe di lavori in spazi pubblici everywhere. Insieme hanno inventato e costruito una macchina registica e scenica piuttosto stupefacente. 

Tristano e isotta

Tre installazioni, che assai bene avrebbero figurato in ArteFiera contemporanea alla prima di venerdì 24 gennaio, disegnano e danno forma ai tre atti del “Tristano”, per quattro ore di rappresentazione. Un nero specchio taglia da un lato all’altro la scena del primo atto, raddoppiando movimenti e gesti: della collerica Isolde e di Brangäne l’ancella, di Kurwenal e del cupo Tristan, come una quinta che mostri il doppio e il nascosto dei terribili fatti ivi narrati, tradimento uccisione salvataggio cura inganno menzogna beffa. Ché, forse, la realtà altro non è che un gioco di specchi. Reale, è l’unico oggetto in scena, è l’abito di Isolde, come un’armatura, un’impalcatura, una gabbia (sia lode, qui e in seguito, ai costumi stilizzati e concettuali di Wojciech Dziedzic). Reali, benché pura metafora giacché a rigore saremmo su una nave in navigazione da Irlanda a Cornovaglia, sono le stalattiti che poco alla volta e impercettibilmente per 80 minuti scendono fino a chiudere e opprimere e ossessionare lo spazio in cui Isolde e Tristan decidono di darsi la morte, “per colpa inespiata”. Ma il reale è beffa, s’è detto: sostituito dall’ancella, il filtro di morte è invece un filtro d’amore. Le stalattiti s’illuminano. Con le parole di Pleger il regista, «la sostanza estranea s’insinua nei loro corpi prendendone possesso e stravolgendoli, il mondo diventa improvvisamente incantato, i due sono catapultati in un’altra realtà, in un universo parallelo», e quanto v’era prima appare loro solo un sogno, “perfida astuzia d’ingannevole inganno”. Sicché, si e ci domanda il regista, «che cosa siamo noi davvero se il modo in cui vediamo il mondo dipende dalla momentanea alchimia del nostro cervello e un piccolo cambiamento indotto da una sostanza basta a ribaltarlo impietosamente? Forse allora il mondo non è che illusione?». Per il regista, l’inconscio prima di Freud, l’estasi psichedelica prima di Timothy Leary. Sipario.

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Il duetto d’amore che domina il secondo atto, cardine dell’intera partitura e uno dei più celebrati dell’opera di Wagner, non era facile da mettere in scena. Spieghiamo: nell’esasperato romanticismo wagneriano quello fra Tristan e Isolde è un amore talmente trasfigurato, idealizzato, disincarnato, in fondo un eros indifferenziato a tal punto che la corporeità è un di più, persino un ingombro. Cancellare il corpo, dunque? Timidamente limitarsi a suggerirlo? Magari, al contrario, imporlo in tutta la sua arroganza, alla maniera degli gnostici che ne facevano abuso e ostentazione e dissipazione proprio perché lo consideravano banale zavorra dell’anima? La scelta registica e scenografica dei due è un azzardo decisamente ben riuscito: una grande scultura albero o radice, intricata, aggrovigliata, ruotante in scena e mutevole, giacché a essa s’intrecciano corpi maschili e femminili dello stesso color biancolatte. E loro stessi, i due amanti, tra le ombre mobili in quella scultura vivente s’arrampicano e s’immedesimano. Se poi le parole che ossessivamente ritornano nel secondo atto sono morte e notte e inganno e menzogna è perché i due protagonisti dovevano esser morti già alla fine del primo, sì che tutto quanto viene dopo è, a rigore, tempo residuo, tempo rubato, tempo avviluppato su se stesso: l’intricata scultura di tronchi e corpi ne dà il preciso segno plastico. 

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Ombre. Se il primo atto è gioco di specchi e il secondo allucinazione e sogno e incubo, il terzo atto è ombre. Ombre e tagli di luce cangianti e violenti da un teoria di fori sulla parete di fondo (essenziali in tutta la rappresentazione le luci di John Torres riprese da Kate Bashore). Ombre giganti e mobili, che raddoppiano e sdoppiano i soggetti sulla scena. Ombre rovesciate, come nella caverna di Platone. Ombre che spiazzano. Come la musica, che ora davvero apre a quel che sarà il Novecento: e sia merito qui all’ottima direzione dello slovacco Juraj Valčuha. Svariate altre sono le note di merito da distribuire: ad Ann Petersen, una Isolde dagli «acuti come lame d’acciao», come ha ben scritto un critico, e Stefan Vinke-Tristan ma anche Albert Dohmen-Re Marke, Ekaterina Gubanova-Brangäne e il cast per intero. Coro incluso, maestro Alberto Malazzi. 

Tristano e isotta

*Foto di Rocco Casaluci per gentile concessione Ufficio Stampa TCBO

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