Siamo stati invitati a vedere l’anteprima di uno dei film più attesi della stagione, tratto da una storia vera. Stiamo parlando di Spotlight, la vera essenza dell’inchiesta giornalista. E chi meglio di un autorevole giornalista poteva recensirlo? Vi lascio alle parole di Roberto Di Caro, del settimanale L’Espresso.

Il caso Spotlight

di Roberto Di Caro

Spotlight sono i riflettori, le luci della ribalta che ti fanno vedere ciò che nella penombra ti sfugge, quanto sta lì davanti a te ma a cui non presti attenzione. Cose che potresti vedere ma non guardi, non metti a fuoco, rimuovi. Questo racconta “Spotlight”, il film di Tom McCarthy presentato alla mostra del Cinema di Venezia, visto per voi in anteprima all’Apollo di Milano, nelle sale dal prossimo 18 febbraio. Il nome è quello del team del “Boston Globe”, primo quotidiano del Massachusetts e uno dei più grandi degli States, delegato dal 1970 alle inchieste che richiedono mesi di lavoro, indagini e controlli estenuanti: insomma il paradigma del giornalismo da Pulitzer. Cosa fanno nel 2001 i quattro del team Spotlight, sollecitati da Martin Baron appena arrivato come nuovo direttore? Riprendono in mano la denuncia di quattr’anni prima su un caso di molestie sessuali commesse da un prete cattolico su vari minori, atti secretati perché intanto era intervenuta una transazione tra vittime e carnefice con tanto di accordo vincolante di non divulgazione. Tirano quel filo, e a seguire un altro e altri ancora, fino a ricostruire la tela di ragno di 150 preti pedofili, migliaia di vittime e, soprattutto, la copertura e l’insabbiamento per 15 anni a opera dell’allora arcivescovo di Boston, monsignor Bernard che per ironia della sorte di cognome fa Law, Legge. Scandalo mondiale, scuse ufficiali del Vaticano, rimozione del monsignore (peraltro trasferito a Roma e tuttora arciprete della basilica di Santa Maria Maggiore). Ma, in luogo di un enfatico peana alla missione della stampa e alla verità infine trionfante, il film è una esemplare narrazione tanto coinvolgente quanto composta e realistica, senza quei ritmi ossessivi e toni da schizzati che, per esempio, rendevano insopportabile una serie tv come “Newsroom”. «E’ una comunità che fa crescere un bambino», dice a un certo punto uno dei protagonisti, «ed è la comunità che ne abusa»: per omertà, manomissioni, condizionamento ambientale, quieto vivere o magari semplice distrazione. Con migliaia di casi, come poteva la comunità ignorare? Lo stesso “Boston Globe” aveva già pubblicato, negli anni e in genere sulle sue pagine locali, gran parte delle notizie che, messe insieme solo nel 2001, porteranno alla ricostruzione della mostruosa rete di molestie e violenze ed episcopali coperture. Molti dei fatti erano lì, già noti, già scritti, altri si sono scoperti, come nel gioco dei puntini della “Settimana enigmistica”, collegando i punti e scoprendone altri fino a rendere intelligibile l’intero disegno. Quindi, sì, “Spotlight” è una celebrazione del giornalismo d’inchiesta. E, sì, è «un appello alla sua sopravvivenza» oggi che «ci chiedono ormai storie di mille parole e perdiamo ore e ore incatenati a twitter, facebook, instagram perché ci spiegano che senza un nostro pensiero in Rete ogni venti minuti non si va avanti», come ha dichiarato Walter Robinson, nel 2001 caporedattore del team Spotlight, interpretato nel film da Michael Keaton. Lo stesso che, in una delle ultime scene, quando le rotative stampano il primo articolo sul caso, chiede ai suoi colleghi: «E noi? Dove eravamo, che cosa guardavamo, quando tutta la città ignorava?»

Il caso Spotlight
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