Dandy Man. Non si dovrebbe mai leggere alcuna indicazione quando ti accingi a sedere sulle panche in prossimità di una sfilata. Perché fra quello che percepisci e ciò che ti raccontano quasi mai trovi un filo di narrazione comune. O almeno per noi, che amiamo cercare rimandi personali. Fosse pure il kimono calato su una spalla alla moda di Jean Cocteau. Così alla sfilata di Lucio Vanotti, splendida e ineccepibile, pareva rivivere il mondo ambiguo e travolgente di Annemarie Schwarzenbach, dei giovani degli anni ’30 e di un elegante Klaus Mann al quale certi occhi dei modelli, scavati e fissi come pietre, parevano rimandare.

Ma anche questa volta il viaggio era tutto mio e l’atmosfera, altresì narrata nella nota di accompagnamento stampa, si concentrava su “l’eco impalpabile del Rinascimento”. Comunque sia il risultato è vicino alla magnificenza: anche se al posto del “colorismo teso di Masaccio” ho visto il pallore mefistofelico insito nella Royal family della letteratura tedesca. È quello che emotivamente ritorna, probabilmente nella moda come nell’arte, a fare il gioco fra i consumatori. Ma anche la precisione, fra felpe dai volumi nobili, camicie che si allungano, trench e giacche tagliati come mantelli signorili. E questo si che combacia. Chapeau mister Vanotti.

Crediti: Giovanni Giannoni

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