• ROBERTO DI CARO

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La Traviata moderna di Andrea Bernard

Ma certo, la conosciamo benissimo questa Violetta indaffarata e workaholic che il regista Andrea Bernard mette in scena al Comunale di Bologna nella sua Traviata riletta nella chiave della mercificazione dei rapporti, primo atto ambientato oggidì nell’immaginaria casa d’aste Valéry’s, a scimmiottare le due più note e a chiarire al pubblico fin dalle battute d’inizio che i sentimenti o almeno le loro parvenze si comprano e si vendono, sono merce di scambio, gioco di potere, relazioni d’interesse.

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Ne incontriamo continuamente, di queste Violette, nelle città del business e della comunicazione: tutte nel loro tailleur pantalone carta da zucchero o simile, alle prese con la futilità della loro vita sentimentale e la superficialità delle loro avventure sessuali, non per indolente lascivia ma come inevitabile portato della costruzione di una identità centrata sul perseguimento del successo professionale innanzi tutto. Finché anche loro inciampano, oh yes, nella passione d’amore, «e sdegnarla poss’io / per l’aride follie del viver mio?».

Ti convince, questa Violetta: complici, sia pure, l’immutabile bellezza delle arie verdiane note anche a chi non ha mai visto un’opera e, va detto, la bravissima soprano Mariangela Sicilia, assente per indisposizione alla prima ma in scena venerdì 3 maggio, convincente nella voce e nell’espressione attoriale. Ma ti chiedi: con un tale impianto ideologico, l’inevitabile contemporanea mercificazione dei sentimenti, come se la caverà il regista con il seguito del melodrammone verdiano, la felice convivenza di Violetta e del suo Alfredo, il sommo sacrificio della rinuncia a lui per amore di lui su richiesta di Germont padre, e il dramma, la fuga, l’ira, la vendetta, il «pagata io l’ho», il rimorso di Alfredo e di Giorgio, il perdono, l’estrema promessa, la morte?

La traviata al comunale di bologna

Perplessità confermate al rientro dall’intervallo de La Traviata. Anche nel salotto design dove s’apre il secondo atto, tra scala a chiocciola in ferro e lampada Arco di Achille Castiglioni, il sacrificio di Violetta (peraltro incongruo: chi mai straccerebbe oggi una storia d’amore perché sennò la sorella di lui resterebbe senza marito per la vergogna di un tal concubinato in famiglia?), il suo sacrificio per l’amato, dicevamo, tale è e tale resta: che sia «calcolo egoistico, puro tornaconto personale» sta certo nell’intento del regista e nelle sue note di regìa, ma lì resta: sulla scena è il testo, la storia, a prendere il sopravvento sull’interpretazione. Né poteva essere diversamente, a meno di non stravolgere la vicenda e riscrivere il libretto, magari non eccelso ma quello è, di Francesco Maria Piave da Dumas figlio.

La traviata al comunale di bologna

Zingarelle e mattadori, bravi e ben giocati nelle loro due belle scene, ti fanno scordare per un istante le discrasie tra il testo e l’idea registica. Ma tali sono, a nostro parere. Si segua come indizio il quadro-fotografia di due amanti a letto, escamotage della scenografia di questa messa in scena della Traviata: nel primo atto, alla casa d’aste tra un Damien Hirst, un Doganiere e una statuina alla Giacometti, è l’emblema della di lei dissolutezza; acquistato da Alfredo, quadro galeotto, diventa nel secondo atto il simbolo del legame da i due; nel terzo atto Germont padre e figlio, Annina e il Dottore se lo ritrovano letteralmente tra i piedi mentre Violetta sta per morire.

A ricordarci con puntiglio, c’è da supporre, che in questa lettura il presunto grande amore dei due è comunque figlio di uno scherzo e di un equivoco. Con buona pace di Verdi e a dispetto del testo.

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