• di Roberto Di Caro

 

Le domande, quelle delle tre Critiche kantiane, che cosa posso sapere, che cosa devo fare, che cosa posso sperare. L’amore per la verità, dall’odio per la menzogna quando, a dieci anni, gli nascosero la morte dell’amata madre e per settimane la camuffarono con goffaggine, fu «la mia Hiroshima interiore». La sua congenita e dichiarata dualità: «l’opposizione complementare di istanze inseparabili, il dubbio e il bisogno di fede». Da qui muove L’avventura del Metodo, uscito nel 2015 per Seuil, appena tradotto per Raffaello Cortina Editore, a cura di Francesco Bellusci.

Autobiografia intellettuale del tuttora lucidissimo 102enne Edgar Morin, è costruita come una scorribanda tra tutte le suggestioni e le catastrofi di un secolo, a cominciare dall’illusione e dalla disintossicazione del protagonista dal marxismo e dal Partito comunista francese con l’Autocritica del ’58: autoesame per comprendere «come rischiamo di mentire continuamente a noi stessi» e prima occasione di fare i conti con il problema «dell’illusione e dell’errore». Insieme a un testo scritto in una lunga convalescenza dopo un coma nel ’61 sui problemi e le questioni che lo ossessionavano, e che solo dopo il maggio ’68 si decise a pubblicare col titolo Il vivo del soggetto, questi due lavori su di sé sono il fondamento di ciò che diverranno, nei 35 anni a seguire, i sei volumi di La méthode. Sta qui il senso del sottotitolo del volume: Come la vita ha nutrito l’opera.

Non un sistema, il suo, al supermercato delle filosofie se ne trovano a dozzine, ma un metodo, appunto. Eppure con l’ambizione, a onor del vero sfrenata, di connettere tutto il conoscibile e l’indagabile: nelle sue parole, «elaborare i principi di una conoscenza complessa di portata universale che implichi il rispetto delle diversità». Teoria della complessità, l’etichetta nelle storie del pensiero contemporaneo. O dei sistemi complessi. Per una curiosa ironia, lui Morin, che scrive «l’opera della mia mente è votata alla vita e la mia vita è votata all’opera della mia mente», sperimenta per la prima volta il suo metodo transdisciplinare in un libro sulla morte, scritto nel ’51 «approfittando della condizione di disoccupato intellettuale».

Ecco, nelle pagine di L’avventura del Metodo la teoria la scopri nel suo farsi, corpo vivo che prende forma nelle scoperte che di volta in volta l’hanno orientata o redirezionata: la psicobiologia di Laborit e la cibernetica di Wiener, Il caso e la necessità di Monod, Schrödinger che gli fa scoprire come un ordine macroscopico può scaturire da un cumulo di disordini microscopici, e Lefebvre che nella storia come in qualsiasi altra disciplina l’osservatore va integrato nell’osservazione, e così via infilando antropologia e gnoseologia, robotica, genetica, epistemologia, politica e diritto, fino all’etica. Non è, quest’ultima, sospesa nel vuoto dei buoni sentimenti, ma al contrario è fondata sulla conclusione cui è giunto navigando nei più diversi campi del sapere: ossia che un sistema chiuso decade e muore per entropia, mentre un sistema aperto agli scambi e all’altro definisce e garantisce la vita e il suo divenire.

Qua e là capita che si lagni, il Nostro: «Suscito interesse solo nei periodi di crisi». Ma lo fa con la leggerezza di un centenario che da tempo, proprio nel corso dell’avventura del Metodo, ha compreso quelli che lui chiama «i princìpi del buon-vivere»: anche se magari, riconosce, non sempre è riuscito ad applicarli. Tra i quali si segnalano: vivere poeticamente il più possibile, conservare la ragione nella passione e la passione nella ragione, tentare sempre di comprendere gli altri, ricominciare sempre, meravigliarsi della vita e trovarvi l’energia per ribellarsi contro gli orrori.

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