PATRIZIA FINUCCI GALLO
Un uomo fortunato, Antonio Mancinelli, visto che nel lavoro gli è riuscito di mettere insieme le sue tre passioni: la scrittura, la moda, la politica. Alla maniera d’antan, beninteso. Studiando sodo, applicandosi, sforzandosi di apprendere tutto quanto serve prima di scrivere una sola riga; ché mica le cose cadono dal cielo come pensano certi suoi studenti al Polimoda che lo fanno imbestialire quando gli chiedono: «Ma invece di dare tutti questi esami non è meglio se ci lanciamo a fare gli influencer?»
Caporedattore di Marie Claire, giornalista da 33 anni da quando ne aveva 21, esordi al “Corriere della Sera”, poi in una testata di moda maschile, per un decennio, ha raccontato martedì 11 dicembre ospite al mio salotto, ha lavorato a “Diario”, testata impegnata e anomala: dove Enrico Deaglio gli chiedeva pezzi come quello, rimasto memorabile, in cui nel ’94 raccontò la discesa in campo di Berlusconi attraverso una meticolosa inchiesta sullo stile suo e dei suoi arruolati, quelle cravatte finte Hermès da venditore di aspirapolvere, il kit del perfetto candidato, roba da far andare su tutte le furie l’allora Cavaliere assai più dell’ennesimo pezzo sullo stalliere mafioso o gli inizi imprenditoriali avvolti nelle nebbie. Perché la moda questo è: «un linguaggio, un osservatorio privilegiato, lo specchio della società in cui viviamo», le sue evoluzioni, involuzioni e contorsioni.
Antonio Mancinelli descrive la moda come un mondo spaventosamente serio
Ciuffo volante, eloquio rapido e incisivo, aneddoto calato quando serve, rispondendo alle mie domande e degli altri ospiti della serata Mancinelli ha descritto la moda come «un mondo spaventosamente serio e allo stesso tempo terribilmente ridicolo, abitato da personaggi spesso inquietanti e talvolta vendicativi». Ma tutto il contrario di un’attività frivola o effimera, come molti anche giovani continuano a considerarla, ultime vittime forse di un pregiudizio italiano e dello scollamento tutto nostrano tra moda e cultura: «Come mi disse una volta Giorgio Armani, siamo una nazione profondamente cattocomunista, per il cristianesimo un peccato essere vanitosi, per una certa sinistra una faccenda secondaria quella “cosmesi del corpo” (copyright Alessandro Mendini) cui provvediamo ogni mattina». Invece è il nostro modo di essere e di cambiare, nonché la seconda voce del bilancio nazionale dopo il turismo: e oggi, a guardare le proprietà in maggioranza ormai straniere dei grandi marchi, «il rischio è che diventiamo (stiamo già diventando) un paese di terzisti». Ah, si obbietterà, ci restano le competenze tutte nostre, l’ineguagliabile saper fare! Ma fino a quando, se le nuove generazioni «sognano di diventare stilista, figura ormai vecchia, diciamolo, o influencer a furia di selfie? Se quando Cucinelli apre un’accademia perché non si perdano le abilità artigianali uniche che gli consentono di vendere ad alto prezzo un suo maglione, a iscriversi sono soprattutto giovani cinesi, loro sì smaniosi di imparare?»
Facile, a questo punto, che sotto accusa finiscano i social. Facile, ma anche un po’ inutile. «Stiamo demonizzando facebook, peraltro ormai per i nonni, i blog, vivi a mezzo, Instagram, che ancora funziona anche se stiamo arrivando a un punto di rottura: ma grande è oggi anche la responsabilità della stampa. Sono in molti a pensare, nell’industria editoriale, che i social possano trainare la carta stampata. Dimenticano che Instagram, mezzo velocissimo e visivo, suscita per sua natura reazioni istintive, di pancia, sì no bello brutto odio amo adoro detesto, non permette elaborazione del pensiero né critica mediata e ragionata. Quando poi le riviste di moda affidano a uno stuolo di blogger le recensioni del beauty o la campagna di rilancio di una testata, non stanno assoldando dei giornalisti ma dei pubblicitari: mestiere dignitosissimo, ma altra cosa dal giornalismo. Penso sia la strada sbagliata».
Contravveleni? Forse. Detti alla rinfusa, qualcuno comincia ad accorgersi che la confusione dei mezzi e dei linguaggi non necessariamente dà i frutti sperati. E alla fine della fiera è di economia che parliamo, un’industria come le altre è la moda anche se lavora sul sogno e il desiderio, e industria è l’editoria, che sui conti e i bilanci si regge. Altro bel segnale: la rivincita del vintage, «roba che per la mia generazione era l’usato, il vecchio da buttare, e ora invece piace alle nuove generazioni. Perché, ti dicono, quel capo mi rispecchia e l’avrò solo io». Nel rapido mutare delle mode, siamo forse già al tramonto anche della fast fashion.
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