• ROBERTO DI CARO

  • Journalist

A luci intermittenti rosse e blu scende dall’alto l’insegna da luna park che annuncia “Il Barbiere di Siviglia”, contrappuntata in chiusa dalla scritta gemella “Fine” alla maniera delle comiche d’antan. Come dire che, caro spettatore, quella che vedi ora al Teatro Comunale (e a giugno in tournée in Giappone, a rappresentazioni alterne con il “Rigoletto” come da qui a fine marzo a Bologna) è la messinscena di una messinscena del “Barbiere” in una fiera popolare d’Ottocento, con la sua essenzialità d’allestimento e scenografia, con i suoi stilemi, vezzi, lazzi, trucchi, fin da fattezze abiti baffi pancia espressione e movenze di Figaro, e ogni altro artificio atto a strappare la risata al pubblico, che a un’opera buffa proprio per questo assiste.

Insomma, il teatro nel teatro, come ai tempi il cinema nel cinema di Truffaut o, per dirla con l’eloquio del regista Federico Grazzini, «rappresentare il Barbiere in chiave metateatrale significa innanzitutto mostrare al pubblico che il mondo in cui è ambientata la storia è finto»: e dunque la casa di Bartolo il vecchiaccio e della sua pupilla Rosina, che lui per interesse più che per lussuria vorrebbe impalmare, somiglia alla casetta di marzapane di Hansel e Gretel, a soccorrere il conte Almaviva nella sua segreta serenata alla pulzella è una banda che più rumorosa e squinternata non ci s’immagina, per la stanza d’interno la cartapesta si deve vedere che è cartapesta perché non rimanda alla realtà ma al teatro; delle fattezze di Figaro s’è detto e lo stesso si dovrebbe argomentare di Basilio l’untuoso trafficone, Berta la serva e degli altri in scena.

il barbiere di siviglia al teatro di bologna

Di un’opera come il Barbiere che è stata ed è rappresentata nelle forme più disparate e antitetiche (da qui a fine anno anche a Firenze, Venezia, Milano e Palermo) la scelta registica della produzione autoctona bolognese è netta, dichiarata, persino enfatizzata, comunque onesta e linda, e alla fine dà i frutti sperati: complice l’essersi affidati alla precisa e rispettosa direzione d’orchestra di Federico Santi e, quanto agli interpreti, a esperti che quei panni vestono ormai da dieci o vent’anni, i baritoni Roberto De Candia per Figaro e Marco Filippo Romano per Bartolo e il tenore Antonino Siragusa per il conte Almaviva, e a una giovane rossiniana di talento e bella voce come Cecilia Molinari nel ruolo di Rosina. Che alla fine si rida e ci si goda musica e canto. Via le ambasce sul denaro, il potere, la corruzione, la borghesia in ascesa e l’arroganza della nobiltà che segnavano il romanzo di Beaumarchais da cui l’opera è tratta, ma a sfumare la denuncia già avevano provveduto Rossini e il suo librettista Cesare Sterbini, tocca capirli, il Barbiere va in scena un anno dopo Waterloo, albori della Restaurazione. Via anche qualunque volontà di ragionare sull’oggi, che bene innervava l’edizione 2016 del Barbiere al Tcbo, un Rossini in versione pop punk new wave estetica metropolitana e musica elettronica in una Siviglia d’Ohio anni Cinquanta.

Resta l’opera buffa, persino un po’ più buffa di come era stata rappresentata fino a quel 1980 in cui Alberto Zedda si prese la briga di confrontare la canonica edizione Ricordi con la partitura originale ora conservata al Museo e biblioteca della musica di strada Maggiore a Bologna: correggendo e ripristinando non solo dettagli ma linee melodiche, ritmi, armonie, orchestrazione, come dire l’intera struttura del Barbiere: per la cronaca, comincia di lì da Rossini Renaissance, con il ritorno in cartellone del resto della ricca produzione rossiniana prima negletta e la riscoperta de “Il viaggio a Reims”.  

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Il Barbiere e le sottili sfaccettature della psicologia di Rosina

Il rimosso ha tuttavia il vizio di tornare a galla, in un modo o nell’altro finisce per imporsi, è più forte dei tagli che una logica di opera-buffa-e-non-si-chieda-altro tenderebbe a giustificare. Diventa palese, inoppugnabile, alla chiusa del primo atto, quando tutti intonano «Mi par d’esser con la testa / in un’orrida fucina», «Alternando questo e quello / pesantissimo martello»: il passaggio forse più strepitoso in un’opera piena di arie popolarissime fischiettate anche da chi non sa cosa sia la lirica, dalla cavatina di Figaro a «La calunnia è un venticello». In quel passaggio c’è da rendere, in un’opera buffa, la follìa: Grazzini s’inventa allora una macchina teatrale di grande efficacia, una enorme palla da demolizione che taglia la scena e sbilancia gli astanti nel crescendo della musica e del coro. E lì percepisci che non sei più nella messinscena di una messinscena, ma in quel «cervello poverello, /già stordito, sbalordito» che «non ragiona, si confonde, / si riduce ad impazzar». Ridi, sì, certo, ma ti s’insinua il senso del dramma (“dramma buffo”, splendido ossimoro, si leggeva nella commissione dell’opera a Rossini da parte dell’impresario del Teatro di Torre Argentina, Francesco Sforza Cesarini).

Così come nell’aria “Una voce poco fa” o nella scena del bigliettino già pronto nel corsetto ti ritrovi a scandagliare le sottili sfaccettature della psicologia di Rosina docile e vipera, ingenua e più scaltra di Figaro, o nell’aria della calunnia la percezione della malevolenza del mondo, o nel monologo di Berta la serva il senso del tempo perduto, l’ira, il rimpianto e la voglia per un amore che è «male universale, smania, pizzicore, solletico, tormento». No, qualunque lucina intermittente tu metta in capo e in coda alla rappresentazione, Giochino Rossini non è un luna park.

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