• ROBERTO DI CARO

  • Journalist

 

Turbolenta, sabato 7 maggio al Teatro Comunale di Bologna, la prima della Lucrezia Borgia di Gaetano Donizetti, libretto di Felice Romani dal dramma di Victor Hugo, coproduzione del Tcbo con l’Opera di Tenerife, direzione d’orchestra di Yves Abel. Al Prologo, applausi a scroscio per la bravissima soprano Olga Peretyatko. Poi, al primo atto, parte del pubblico a urlare “buuh, vergogna!” per una scena pasoliniana alla Salò-Sade, e un’altra parte a battere le mani in risposta: a rinverdire, in sedicesimo, la tradizione d’origine delle baruffe all’opera, quando dal loggione e dai palchi pioveva di tutto e non di rado si finiva alle mani.

Il punto è che la scena incriminata, per cruda e brutale che sia (un mattatoio in luogo di un palazzo, sette donne in gabbia, trascinate, appese, vessate, carne da macello in mano a squadristi in fez, stivali e camicia nera) è del tutto coerente con la rilettura che la regista Silvia Paoli ha imposto al testo, facendo della storia il paradigma di un potere malato esercitato senza controllo, che non lascia alternativa al finire vittime o carnefici, più spesso entrambe le cose.

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L’azione è dunque trasposta dal Rinascimento all’Italia fascista anni Trenta, aquile romane, scrivanie mussoliniane, ginniche esibizioni alla Starace. Bordello discinto e sguaiato è all’inizio la festa veneziana di Carnevale, d’alto bordo nel finale quella al palazzo ferrarese della principessa Negroni. Fuor di libretto, Lucrezia, che un secolare pregiudizio bolla come avvelenatrice, immorale, incestuosa e spergiura, sulle primissime note compare in scena bambina in veste di Cappuccetto Rosso, violata dal padre Rodrigo, papa Alessandro VI, in maschera di lupo. E il sangue alle pareti del mattatoio resta pur sempre lì nei molti cambi di scena, di grande efficacia e di bell’ingegno, per la cura di Andrea Belli, ove ben composti si muovono i tableaux vivants di macellai, soldataglia, squadristi e prostitute, per i costumi di Valeria Donata Bettella, le luci di Alessandro Carletti, la coreografia di Sandhya Nagaraja: merita citarli anche perché, dopo le invettive al primo atto, non solo la regista, impegnata altrove, ma neppure loro sono saliti in proscenio nel lungo applauso che ha comunque chiuso la serata.

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Ora, fatto salvo il pieno diritto di quanti un’opera la vorrebbero com’è stata scritta e ambientata, foss’anche zeppa di damaschi e sontuosità di cartapesta, ché la fedeltà letterale a testo e spartito ha una sua nobiltà, v’è poi una parte di spettatori, a Bologna forse più che altrove eccetto Parma, disposta sì a tollerare qualche estrosità nella regìa e nella messa in scena, ma con juicio, non più di tanto, vigilando che la rilettura non si trasformi in riscrittura. Rispettabile posizione, ci mancherebbe altro. Per parte nostra, pensiamo invece che, se rilettura dev’essere, meglio radicale e coerente piuttosto che pavida e raffazzonata. Meglio un netto cambio di segno nella rappresentazione dell’azione e dei personaggi, anche a costo di ribaltare come un calzino l’impianto originario quale che sia (esempi pre-pandemia: la fantasmagorica cyber Turandot per la regìa di Fabio Cherstich, o l’assoluto formalismo del Trovatore di Robert Wilson, palcoscenico sfrondato di ogni orpello, tagli violenti di luce, posture degli interpreti che nella loro fissità rifiutano di duplicare i moti dell’animo) piuttosto che ritocchi da piccola chirurgia estetica, lifting non richiesto per ringiovanire un po’ la storia, in genere dall’esito assai opinabile (precedenti: perché mai, in una pur riuscita Bohème, la Violetta workaholic manager di una casa d’aste dovrebbe lasciare Alfredo per non infangarne l’onore in ragione del mestiere che fa? O, sempre tre anni fa, per quale insano escamotage registico l’empio Don Giovanni ormai sprofondato agli inferi continuva a trascinarsi sulla scena come uno zombie o un attore ebbro che non s’è accorto che lo spettacolo è finito?).

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Capita persino (come nella citata Turandot) che la messa in scena più lontana dal canone si riveli essere, a conti fatti, la più fedele. O (come qui nella Lucrezia Borgia di Silvia Paoli) quella che ti spinge a esplorare il non detto dell’opera, il substrato oscuro da cui sgorga, lo scarto tra la percezione di chi e quando fu scritta e composta e la ricezione che possiamo averne oggi noi. In un mondo, si pensi all’aggressione russa in Ucraina, tuttora segnato da vittime e carnefici, soldataglie, avvelenamenti, esercizio incondizionato e malato del potere.

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foto @Andrea Ranzi