di Roberto Di Caro e Patrizia Finucci Gallo
Volti. Leporello enumera, in Italia seicento e quaranta fino a in Ispagna son già mille e tre. Lui, Barnaba Fornasetti, che di questo Don Giovanni, suo dal progetto alla messinscena, ha riservato a sé la scenografia, quando attacca Madamina il catalogo è questo getta al pubblico una doppia teoria di visi di donna, srotolati dall’alto come un tempo certi calendari dei barbieri. Il servitore del Dissoluto elenca donne d’ogni grado, d’ogni forma, d’ogni età, la grassotta, la magrotta, insomma corpi, purché porti la gonnella voi sapete quel che fa. Lui, Fornasetti, i corpi li tralascia, e nei volti che disegna sono gli occhi a dominare, grandi, spalancati a fissare lo spettatore, decisivi anche quando sono coperti o socchiusi. Del resto, sono i volti suoi, quelli che disegna da sempre su piatti cuscini mobili orologi vasi tavoli teiere e quant’altro. E che ritornano in altre scene dell’opera, prima fra tutte quella in cui la Zerlina del Vorrei e non vorrei sta per cedere al briccone Don Giovanni, e il volto è tutta la scena, e lentamente s’incrina lungo una linea che lo disegna insieme di fronte e di profilo, sdoppiato come il desiderio della non così ingenua Zerlina.
Ci sono altri tratti topici di Fornasetti, la luna, il sole, e fin dal primo quadro le case e i castelli di carta con cui s’apre la rappresentazione. Non ha nulla di minimalista. Ma è, sì, un lavoro di rarefazione, di sottrazione, l’essenziale è ciò che serve: l’esatto opposto di una tradizione del melodramma usa a giocare con magnanimità sugli orpelli di scena.
Fornasetti Don Giovanni in scena a Pitti Uomo. I costumi disegnati da Romeo Gigli.
Da qui dobbiamo muovere anche per dir dei costumi, che si devono a Romeo Gigli e con l’impianto di questa rappresentazione di Mozart e Da Ponte sono in piena sintonia. Ma prima converrà rammentare che siamo a Firenze, l’occasione è Pitti Uomo, il teatro è quello della Pergola con i suoi trecentosessant’anni di storia. E che giusto la sera prima, al party nell’atrio di questo stesso spazio, il dj era un Fornasetti beato e sorridente a smanettar sui mixer come un ragazzino, indosso una giacca a disegno quadrettato bianco e nero e sul capo una tuba d’antan, lui che in We are dandy di Rose Callaghan e Nathaniel Adams occupa dieci pagine di testi e foto.
I costumi, dunque. Giocati su fogge e tagli che ricordano Aelita e l’avanguardia russa anni Venti, e su una significazione univoca dei colori: il rosso di Donna Anna, tinta del sangue e del delitto; il viola di Donna Elvira, che è tradimento subìto ma anche destino di vita monacale se all’ultima scena Io men vado in un ritiro a finir la vita mia; il giallo di Zerlina, del sole e dei campi di grano come s’addice alla giovane e bella contadina. A spiazzare e svelare non poco sono però l’abito, la chioma e le movenze di lui, il protagonista, Don Giovanni. Tocca fare una breve digressione.
Che sia mostro, fellon, nido d’inganni lo sappiamo, glielo strilla contro disperata Donna Elvira; e se lei, sedotta e abbandonata, come vuoi che parli di lui, pure chi meglio di tutti lo conosce, il Leporello al corrente d’ogni sua infamia e sotterfugio, a rischio della pelle gli dice, scena quarta, caro signor padrone, la vita che menate è da briccone. Ma, da Soren Kierkegaard fino al Giovanni Macchia nella sua disamina delle dozzine di Don Giovanni dal Burlador de Sevilla alla commedia dell’arte, da Molière a Hoffmann, una seducente lettura ce lo fa benvolere, quel briccone. Detto altrimenti fa sì che seduca anche noi. Lo sappiamo che è un mascalzone, ma in fondo non c’importa gran che. Perché incarna la vita estetica (questa è davvero tutta colpa del danese in Aut-aut) e a vedere Don Giovanni negli abiti delle messinscena tradizionali dell’opera mozartiana ce ne convinciamo sempre più. Perché è l’esuberanza, la sensualità, la frenesia vitale, la libertà di chi s’è scrollato di dosso regole e convenzioni. Perché ha il gusto della sfida radicale, non si tira indietro neanche davanti alla statua del Commendatore che lo sta per tirar giù all’inferno, e al pèntiti, scellerato ribatte no, vecchio infatuato!
Ora, che cosa fa Romeo Gigli, cui si devono la direzione creativa e i costumi, complice l’attenta regìa di Davide Montagna? Il presunto nobile esteta e spavaldo eroe della libertà di pensiero lo veste e lo acconcia per quel che in realtà è: un cialtrone, un farabutto, abile certo ma sempre cialtrone e farabutto, un mezzo camorrista o un borgataro sbruffone o uno da mala milanese d’una volta. Smonta la costruzione che ce lo aveva fatto benvolere, sfilaccia il mito. Allo stesso modo che la scenografia, lavora per sottrazione e lascia l’essenziale. Anche qui, è tutto ciò che serve, ci piaccia o no quel che resta.
Quella che si presenta come la più onirica rappresentazione del Don Giovanni si rivela, da ultimo, la più smaliziata, smascherante, veritiera.