di Roberto Di Caro

La messa in scena più lontana dal canone si rivela essere la più fedele. Il ribaltamento più radicale, l’interpretazione più rispettosa. Al Teatro Comunale di Bologna fino a venerdì 7 giugno, con alcuni aggiustamenti rispetto all’esordio, a gennaio, al Teatro Massimo di Palermo.

Piazzata l’azione in una Pechino ipermetropolitana anno 2070 dominata dallo spietato cyber matriarcato della principessa Turandot, Fabio Cherstich, alla sua prima regìa lirica in teatro dopo aver inventato quattr’anni fa Operacamion e portato in giro Mozart e Rossini per le piazze e le periferie d’Italia, sfronda d’ogni restante languore la favola gozziana messa in musica e mai completata da Giacomo Puccini, la sottrae a una rappresentazione stereotipata e stantia e, con una scelta radicale di scenografia e costumi, le regala una visionarietà e insieme una contemporaneità non di facciata: al contrario di quanto talora avviene allorché la foga di attualizzare un’opera produce opinabili escamotages che il più delle volte inciampano e stridono con la storia, il libretto, il carattere dei protagonisti.

Dopotutto, se metti mano a un’opera, meglio ribaltarla come un calzino, a rovescio ne leggerai fedelmente lo stesso disegno che ti potrà piacere quanto o più o meno del diritto poco importa, piuttosto che ripiegarne un lembo rendendone incongrui trama e ordito.

Sia detto al netto delle critiche e obiezioni da più parti rivolte, di cui diamo conto più avanti.

la turandot al comunale di Bologna

TURANDOT CYBER GIRL AL TCBO DI BOLOGNA

Così i video (su un grande schermo centrale a fondo scena, due laterali più piccoli e un quarto che all’occorrenza scende fino a metà sipario) non sono in aggiunta alla scenografia: sono essi stessi la scenografia, salvo quei pochi elementi fisici necessari a posizionare il coro, dal ruolo rilevante e ben diretto da Alberto Malazzi, e al second’atto i tre ministri Ping Pong Pang, tutti di rosso vestiti.

Dal primo all’ultimo movimento di bacchetta scorrono sugli schermi droni e navicelle, androidi e draghi volanti, edifici come escrescenze d’alveare nella coloratissima e caotica capitale dell’Impero globale, grappoli di teste e seni d’ascendenza surrealista, corpi di donne violate come l’antenata di Turandot la cui sventura ne spiega la crudeltà, corpi di uomini sottomessi e decapitati come i pretendenti che prima di Calaf hanno fallito la prova dei tre enigmi.

E’ il lavoro, raffinato e d’effetto, del collettivo AES+F, iniziali dei quattro artisti Tatiana Arzamasova, Lev Evzovich, Evgeny Svyatsky e Vladimir Fridkes, la cui produzione incrocia ormai da vent’anni performance e videogame, pittura, fumetto e digital art.

la turandot al comunale di Bologna

Quanto alle obiezioni che sono state mosse: la fantasmagorica videoscenografia oscura la musica e sminuisce gli interpreti? Per alcuni può essere, ma le modalità di fruizione sono varie e personalissime, e per altri vale il contrario: complice il ritmo sempre uguale e quasi ipnotico delle immagini, che scivolano lente senza mai accelerazione alcuna, vieni indotto a seguire ogni nota dell’orchestra (encomiabile la direzione di Valerio Galli), ogni acuto di Liù e Turandot (le soprano Mariangela Sicilia e Hui He, qui citate in ordine di applausi ricevuti), e la piena voce tenorile di Gregory Kunde nel ruolo di Calaf. Altra critica: il coro se ne sta fermo sulle gradinate e i solisti al centro del palco si muovono poco. Un po’ è vero, ma davvero sentiamo il bisogno di un frenetico viavai sennò che regia è? Da ultimo: pare di stare, s’è letto, a una sfilata di Dolce & Gabbana.

Foss’anche, non sarebbe un credibile equivalente della sfarzosità della corte imperiale cinese come la poteva immaginare l’orientalismo degli anni Venti in cui Puccini mette mano alla sua Turandot?

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